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MONGOLIA - Eagles festival
 
 
" Terra di nomadi e cavalieri "

Viaggio in uno dei paesi più sconosciuti ed affascinanti dell'Asia centrale, terra di pastori nomadi e di cavalieri eredi del mitico Gengis Khan, terra difficile, dagli orizzonti infiniti, in cui è la natura ad imporsi con sterminate praterie, incredibili distese di dune, vasti deserti pietrosi.
Reminescenza di una tradizione antichissima, menzionata da Marco Polo nelle sue memorie di viaggio e perpetuatasi nei secoli tra le popolazioni nomadi dell'Asia Centrale, che la praticano ancora oggi, l'Eagles festival ci ha offerto l'opportunità di uno straordinario incontro con i cacciatori kazaki dei Monti Altaj.
Una festa, un momento di aggregazione, un insieme di folkloristiche manifestazioni: le esibizioni delle aquile, utilizzate abitualmente per cacciare piccoli animali da pelliccia, le gare di cavalieri ed arcieri, il Buzkashi, maschia competizione fra squadre di cavalieri che si contendono una pelle di capra.


Sabato 21 settembre - Da tempo la Mongolia, figurava fra le possibili mete di viaggio, ma solo quest'anno siamo riusciti a concretizzare il nostro progetto. In serata ci rechiamo a Milano Malpensa dove alle 00,40 ci attende il volo notturno per Mosca.

Domenica 22 settembre - Volo tranquillo ed arrivo prima dell'alba nella capitale moscovita. Passati i controlli doganali raggiungiamo il terminal ferroviario, punto di partenza del treno Aeroexpress che collega l'aeroporto con le linee della metropolitana della città. Mancato per pochi minuti il treno precedente prendiamo quello in partenza alle 8; trentacinque minuti di viaggio attraverso la periferia moscovita e ci ritroviamo alla stazione di Bielorusskaya, punto di interscambio con due linee della metropolitana. Abbiamo qualche difficoltà a decifrare i pannelli con le indicazioni scritte solamente in cirillico e per sbaglio prendiamo la linea circolare marrone anzichè la più diretta linea verde. Rimediamo, scendendo a Park Kultury; con la linea rossa ci portiamo a Okhotny Riad, una delle tre stazione che si trovano nelle immediate vicinanze della Piazza Rossa. Ha da poco smesso di piovere; il vento freddo e teso sta allontanando le nubi. Ci rechiamo ai vecchi magazzini di stato Gum, ora moderno e sfavillante centro commerciale con centinaia di negozi, bar e ristoranti, dall'interno spettacolare per l'arcuato tetto trasparente costruito nel 1890 con un progetto rivoluzionario per l'epoca. L'enorme costruzione lunga oltre 240 metri, occupa uno dei lati della Piazza Rossa e l'elaborata facciata ottocentesca si contrappone all'austero Mausoleo di Lenin che sorge sul lato opposto. Ci portiamo quindi, all'edificio simbolo di Mosca, la cattedrale di San Basilio, un insieme di nove minuscole chiese, collegate tra di loro, voluta da Ivan il Terribile e costruita tra il 1555 ed il 1561. Caleidoscopio di colori e forme, rappresenta l'apice dello stile delle cupole a cipolla nell'architettura russa; un vero gioiello sia per l'estetica esterna che per la ricca collezione di affreschi ed icone contenute all'interno. Attraverso i giardini Aleksandrovsky raggiungiamo il Monumento al Milite Ignoto; costeggiando le mura perimetrali del complesso del Kremlino giungiamo in Kremyovskaya nab, il largo viale che fiancheggia il fiume Moscova, da cui facciamo ritorno all'estremità settentrionale della Piazza Rossa, facendo sosta alla Cattedrale di Nostra Signora di Kazan, dove assistiamo alla celebrazione di un matrimonio. E' ormai tardo pomeriggio, dalla stazione Teatralnaya, nei pressi del teatro Bolshoi, questa volta con la linea metro più diretta raggiungiamo il terminal di Bielorusskaya per fare ritorno all'aeroporto Sherematyevo. Breve attesa ed alle 20 siamo nuovamente in volo questa volta verso la Mongolia.

Lunedì 23 settembre - Alle 6 del mattino con una temperatura di -7 gradi centigradi atterriamo al Chinggis Khaan Airport di Ulan Bataar. Grazie al celere disbrigo delle formalità doganali, in meno di un'ora siamo nella hall dove ad attenderci troviamo Bilegt, la moglie di Mejet Khishig, titolare della Mejet Tour, l'agenzia che abbiamo contattato e a cui ci appoggiamo per questo viaggio. In taxi, attraversando parte della zona industriale della città, copriamo i diciotto chilometri che separano l'aeroporto da Bayanzurkh District, il quartiere dove sorgono i palazzi in cui i coniugi Khishig risiedono e dove possiedono un appartamento con due camere e sei posti letto che utilizzeremo come guesthouse nei giorni di permanenza a Ulan Bataar. Dopo aver discusso e pianificato gli ultimi particolari del viaggio già ampiamente concordato tramite e-mail, in compagnia di Bilegt, ci rechiamo allo State Departement Store per il cambio di valuta, poi da soli iniziamo la visita della città; con Bilegt ci ritroveremo verso le 19 quando ci recheremo al supermercato per l'acquisto della scorta di viveri e di quanto necessario per il viaggio. Raggiungiamo la vicina piazza Sukhbaatar, al centro della quale sorge il monumento dedicato a Damdin Sukhbaatar, eroe della rivoluzione, colui che nel 1921 rese la Mongolia indipendente dalla Cina. La piazza, cuore di Ulan Bataar, è un incredibile miscuglio di stili; edifici di stampo classico sono affiancati ad altri di stampo sovietico, a tetti orientali, a costruzioni modernissime. Il lato settentrionale è occupato dal moderno Palazzo del Parlamento, nella cui facciata è inserito il monumento dedicato a Gengis Khan affiancato dalle statue di altri eroi mongoli. Vorremmo visitare anche il museo del Tempio di Choijin Lama ma la sua chiusura per lavori ci costringe a rimandare la visita al nostro rientro a Ulan Bataar.

Martedì 24 settembre - Sveglia di buon ora e prima colazione con scambio di notizie ed informazioni in compagnia di una coppia francese rientrata ieri sera dal giro nel nord del paese. Alle 9 Bilegt è all'appartamento; in strada ad attenderci un taxi che ci porterà alla periferia di Ulan Bataar dove ci troveremo con Bazaraa, l'autista che con il suo pulmino Uaz a quattro ruote motrici di fabbricazione russa ci accompagnerà in questo viaggio. Ultimati gli acquisti con la scorta di acqua, possiamo partire. La strada che dobbiamo seguire è quella che porta al confine con la Russia; le condizioni del fondo, un susseguirsi di buche e rappezzi non sono certo degne di una via di comunicazione di tale importanza. Superata la cittadina di Balanzag, svoltiamo in direzione di Bulgan; nei pressi del villaggio di Orkhon acquistiamo da alcune ragazze, del pesce affumicato, molto apprezzato a cena, che viene pescato nel fiume che da il nome al villaggio. Poco oltre comincia la pista molto sconnessa, con fango e guadi, primo vero approccio alla viabilità mongola, che porta al Monastero di Amarbayasgalant. E' ormai metà pomeriggio; senza perdere tempo ci dirigiamo al complesso monastico, il più integro del paese. Edificato in stile mancese all'inizio del 1700, è annoverato fra le più importanti istituzioni buddhiste. Oltrepassate le Torri del Tamburo e della Campana ed il piccolo Tempio degli Dei Protettori, con alcuni giovani monaci visitiamo sale e cortili, fino a giungere al Tempio Principale, adorno di broccati che pendono dal soffitto ed in cui si trova la statua del lama Rimpoche Gurdava. Saliamo quindi allo stupa eretto in tempi recenti sulla collina alle spalle del monastero, da cui lo sguardo spazia sull'intera vallata.

Mercoledì 25 settembre - Prima notte ospiti di una gher mongola, messaci a disposizione, grazie alle conoscenze di Bazaraa, da una famiglia del villaggio. Dopo esserci preparati la colazione, passeggiamo per il sonnacchioso villaggio e saliamo nuovamente allo stupa prima di incontrarci con il nostro autista che ha trascorso la notte, cosa che farà per tutto il viaggio, nel suo van. Percorriamo a ritroso i trentacinque chilometri di pista che ci separano dalla strada asfaltata che con continui saliscendi porta alle cittadine di Erdenet e Bulgan. Qui, termina l'asfalto; Bazaraa, seguendo piste appena tracciate, ci conduce attraverso la prateria, a vedere alcune pietre cervo, megaliti risalenti all'età del bronzo posti a segnalazione di siti sepolcrali, così chiamati perchè le antiche tribù della steppa credevano che dopo la morte l'anima salisse in cielo sul dorso di un cervo. Alle 16 giungiamo al villaggio di Hishig Urdun; ci fermiamo presso l'unica locanda del villaggio. E' in condizioni molto misere; con Bazaraa decidiamo di proseguire per una decina di chilometri e di raggiungere in una vallata isolata, un campo turistico con bungalow e gher utilizzate durante il periodo estivo. Mentre le gher sono state ormai smontate, è ancora disponibile, prima della chiusura invernale, qualche bungalow. Intorno a noi l'immensità della prateria; nel silenzio più assoluto con la sola compagnia del rumore del vento, risaliamo il crinale di una collina per raggiungere le gher di alcuni pastori nomadi. Gli animali, cavalli e asini stanno rientrando dal pascolo; in attesa del tramonto assistiamo alle operazioni di mungitura delle giumente.

Giovedì 26 settembre - Alle 9 ora fissata con Bazaraa per le partenze del mattino lasciamo il campo turistico; attraversata Hishig Undur proseguiamo nella prateria su piste, per lunghi tratti, tortuose e sconnesse. Ovunque animali al pascolo: cavalli, mucche, pecore, capre. L'ultimo tratto della strada odierna è asfaltato, ci avviciniamo ad una delle località più visitate della Mongolia, Kharkhorin, l'antica capitale voluta nel 1220 da Gengis Khan. Decidiamo di proseguire fino al vicino monastero di Shankh Khiid e di ritornare in città, per visitare il complesso di Erdene Zuu, più tardi. Shankh Khiid è un vecchio monastero un poco malmesso, sopravvissuto alle purghe staliniane del 1937; costruito nel 1647 è il punto di riferimento della fede lamaista. Terminata la visita, Bazaraa ci porta ad un vicino gruppo di gher in cui vive una famiglia di nomadi, allevatori di cavalli. Veniamo invitati dall'anziana proprietaria ad entrare nella gher, la tipica tenda mongola dalla struttura in legno e rivestita di feltro, dove ci viene offerto the, latte fermentato, biscotti e panna. Ritornati a Kharkhorin e depositati gli zaini nella gher che utilizzeremo per la notte, a piedi raggiungiamo il monastero di Erdene Zuu, circondato da una intatta e massiccia muraglia, che misura ben 420 metri per lato, in cui sono inseriti 108 stupa, tanti quanti i grani del rosario buddista. Negli anni '30 del secolo scorso, il governo filosovietico distrusse buona parte degli edifici sacri, uccidendo i monaci e trafugandone i tesori; riaperto come museo nel 1965, solo nel 1990 con il crollo del comunismo ed il ripristino della libertà di religione, è ritornato ad essere un luogo di culto. Facciamo un giro per la vasta spianata interna in attesa di visitare i templi, cosa che faremo domani, essendo ormai prossima l'ora di chiusura.

Venerdì 27 settembre - A piedi raggiungiamo nuovamente il monastero. Passata la cinta muraria perimetrale, raggiungiamo i tre templi sopravvissuti alla distruzione russa e che sono dedicati alle tre fasi della vita di Buddha: infanzia, adolescenza ed età adulta. Pagato il biglietto, veniamo accompagnati nella visita da una signora che ci illustra i templi laterali nelle cui teche sono esposti thankha e pitture murali ed il tempio centrale, ancora oggi luogo di culto in cui troneggia la statua di Buddha Sakyamuni. Ci portiamo verso l'angolo settentrionale delle mura, passando accanto allo Stupa Dorato della Preghiera, per raggiungere il complesso di Lavrin Sum, tempio in stile tibetano dove ogni mattina si tengono funzioni religiose; vi stanno giungendo alcuni monaci e diversi pellegrini, attendiamo l'inizio della funzione ascoltando le preghiere cantate da giovanissimi monaci, accompagnati nel canto dal suono di corni e piatti. Uscendo dalla porta settentrionale, ci rechiamo ad una delle due grosse tartarughe di pietra, che un tempo segnavano i confini della città di Karakorum, l'antica capitale di Gengis Khan. Facciamo ritorno al campo turistico presso cui abbiamo alloggiato e ci ritroviamo con Bazaraa con cui ci eravamo accordati per l'orario di partenza. Uscendo da Kharkhorin, facciamo una sosta al mercato, allestito, come avremo modo di vedere in quasi tutte le città mongole, in container. Ci dirigiamo a Tsetserleg, capoluogo della regione dell'Arkhangai. La strada asfaltata, è inframezzata da tratti dissestati in cui sono in corso lavori di sistemazione; in poco più di due ore copriamo i centoventi chilometri che separano Kharkhorin dalla meta odierna. Preso possesso delle camere alla Fairfield Guesthouse, ottima sistemazione gestita da europei, ci facciamo portare nella zona in cui si tiene il mercato e dopo aver girato per la parte coperta, più moderna ma meno interessante, ci spostiamo alla vasta area esterna in cui sono allineati i container.

Sabato 28 settembre - A piedi ci rechiamo nuovamente al mercato; siamo in anticipo sull'orario di apertura. Banchi e container sono ancora quasi tutti chiusi e poche sono le persone presenti. Per uscire, passiamo dal settore del mercato coperto riservato alle macellerie; dagli autocarri, alcuni uomini stanno scaricando pecore macellate mentre altre persone che ne hanno acquistato le pelli, le trascinano ai propri mezzi. A piedi raggiungiamo il museo dell'aimag di Arkhangai, ospitato all'interno del complesso di templi di Zayain Gegeenji Sum. Risalenti al 1586, si salvarono dalle purghe staliniane in quanto già trasformati in museo. Purtroppo è giorno di chiusura e non ci è possibile visitare le sale interne, ma grazie alla disponibilità di un custode ci viene concesso di girare per il cortile interno che ospita i padiglioni museali; ne approfittiamo per sbirciare dalle ampie vetrate e vedere seppure sommariamente gli oggetti esposti, dedicati allo stile di vita tradizionale della regione. Dopo essere saliti al piccolo tempio di Galdan Zuu che sorge sulla montagna alle spalle del museo, facciamo ritorno alla guesthouse; è ora di lasciare Tsetserleg. Superato un passo, ci ritroviamo sull'ondulato altipiano a circa 1.800 metri di quota; improvvisamente dalla steppa spunta un gigantesco monolito intorno al quale ruotano molte leggende: è la roccia sacra di Taikhar Chuluu. Tra boschi di larici, costeggiamo la pittoresca gola di Chulut, punto terminale della strada asfaltata. Mancano ancora centocinquanta chilometri a Terkhin Tsagan Nuur, lago d'acqua dolce adagiato su un letto lavico, nostra destinazione odierna. Proseguiamo sulla pista che porta a Tariat per affrontare l'accidentato tratto finale, alle pendici del vulcano Khorgo e raggiungere le rive del lago flagellate dal vento, dove ci fermiamo per la notte in una gher di pastori.

Domenica 29 settembre - Ci facciamo portare da Bazaraa all'ingresso del parco, punto di inizio del sentiero che porta alla caldera del vulcano. Saliamo lungo il sentiero ripido e sassoso che tra nere rocce laviche e larici siberiani con le foglie ormai gialle, conduce ai 2.178 metri del vulcano Khorgo. Camminando sul bordo del cono vulcanico, da cui si gode di una fantastica vista oltre che sul cratere interno, sulle ripide pendici esterne e sull'altipiano sottostante, completiamo il periplo del cratere, per scendere dal lato opposto a quello di salita, attraverso un bosco di larici e la successiva morena di sassi basaltici. Raggiunta la pista, ci incamminiamo verso Tariat; il sole che ci ha accompagnato per tutta la mattina assieme ad un vento forte e gelido, sta lasciando spazio alle nuvole. Giriamo per le strade del paese, larghi spazi rubati alla prateria e delimitati dalle recinzioni, alti steccati di legno che proteggono dal vento, casette in legno o gher poste all'interno degli appezzamenti di terreno che a loro volta costituiscono quartieri di forma quadrata. Come concordato, alle 16, Bazaraa si fa trovare nella piazza del villaggio ed in auto facciamo ritorno al lago, dove ci rifugiamo nella gher con la stufa accesa a causa del vento sempre più impetuoso.

Lunedì 30 settembre - Notte fredda e ventosa che ha ammantato la copertura in feltro della gher di uno sottile strato di ghiaccio. Alle 9, come di consueto siamo in partenza per la tappa di trasferimento odierna. Proseguiamo verso ovest lungo la pista che costeggia le rive del Terkhin Tsagaan Nuur prima di ricongiungersi con la nuova strada in fase di ultimazione ma che per le condizioni disastrate, nessuno percorre anche se i lavori di ripristino procedono alacremente nei numerosi cantieri in cui sono all'opera maestranze cinesi. Saliamo gradatamente di quota; il vento gelido non da tregua, la steppa è deserta, i pascoli con i recinti per gli animali sono ormai desolatamente vuoti. Oltrepassiamo un passo ad oltre 2.500 metri di quota; dopo aver affrontato alcuni guadi ricoperti da una spessa crosta di ghiaccio, lentamente iniziamo la discesa verso Tosontsengel, cittadina in cui durante l'inverno si registrano le temperature più basse dell'intera Mongolia, con punte che arrivano a -55 gradi centigradi. Alle 16 siamo all'hotel ubicato sulla via principale; usciamo a piedi fra casette in legno e gher protette da alte staccionate fino ad una vecchia fabbrica russa ora in disarmo.

Martedì 1 ottobre - Lasciamo Tosontsengel, proseguendo lungo la pista che porta verso Uliastai, attraverso le basse colline della prateria; spazi enormi circondati da bassi rilievi montuosi, ormai deserti. Anche nella regione dello Zavskhan, i ricoveri ed i recinti per gli armenti sono vuoti: uomini ed animali si sono trasferiti per il periodo invernale in pascoli meno freddi. Lasciata la pista principale, ci inoltriamo nella steppa su piste appena tracciate per dirigerci verso il lago Khar Nuur. Essendo una zona più riparata, ritroviamo enormi greggi di pecore e capre, centinaia e centinaia di capi al pascolo insieme a cavalli, mucche, cammelli e yak. Ci fermiamo presso le gher di alcuni pastori, conoscenti di Bazaraa; veniamo invitati ad entrare in quella in cui vive una giovane coppia con il loro bimbo, che qui trascorreranno l'inverno insieme ad altri nomadi che hanno montato le loro gher nelle vicinanze. Ci vengono offerti l'airag, il latte di giumenta fermentato e del formaggio di yak essiccato che noi ricambiamo con biscotti. Bazaraa ed i pastori parlano e si scambiano notizie ed informazioni; nella gher già pronta per affrontare il lungo e rigido inverno mongolo grazie al rivestimento di uno spesso strato di feltro, è presente anche un televisore che viene alimentato da un piccolo pannello solare. Dopo l'interessante e piacevole visita riprendiamo il viaggio, lo spettacolo che si presenta davanti a noi, scendendo verso il lago dalle alture circostanti è di notevole effetto: una lunga lingua di dune sabbiose che dalle colline si protende fino ad immergersi nelle acque del lago. Lasciamo l'auto al termine della pista e ci inoltriamo nella distesa di dune, un piccolo deserto che si estende tra il Khar Nuur ed il Dorgon Nuur, arrancando nella sabbia ed infastiditi dal vento che solleva sabbia e polvere, mentre il sole comincia a scendere verso l'orizzonte. Ci fermiamo fino alle 18, quando percorrendo a ritroso un tratto di pista raggiungiamo un campo di gher, dove veniamo ospitati per la notte.

Mercoledì 2 ottobre - Percorso molto breve ma totalmente in fuoristrada quello odierno, che ci ha permesso di apprezzare le capacità di guida e di orientamento di Bazaraa, profondo conoscitore del proprio paese. Da oggi fino ad Olgji, insegnerà ad un altro autista, suo amico, con cui viaggiano due signori australiani, quali piste percorrere per raggiungere questi posti incredibili, toccati solo sporadicamente da passaggi turistici. Dopo aver costeggiato per un breve tratto il Khar Nuur, giunti al limitare delle dune, iniziamo una lunga salita attraverso prati di muschi e licheni, terreno di pascolo per mucche e cammelli. Ci fermiamo nei pressi di una gher, accolti da alcuni pastori nomadi felici di poter interrompere le loro attività e di scambiare qualche parola con il nostro autista; solo una donna, dopo una rapida occhiata, continua imperterrita il lavoro di mungitura di mucche e giumente. Riprendiamo la ripida salita, ci arrampichiamo in fuoristrada fino ai 2.700 metri di quota, punto di scollinamento di Senjit Khad, in cui sono presenti rocce lavorate dal vento ed un grosso arco di roccia naturale. La discesa su declivi in forte pendenza e privi di traccia ci portano verso un fondovalle di dune sabbiose: Munkhartyn Els. Lasciata l'auto, proseguiamo a piedi per raggiungere la sorgente di un fiume, fonte di abbeveramento per greggi ed animali selvatici, che nasce dal sottosuolo in un affascinante anfiteatro di forma semicircolare formato da alte dune sabbiose. Al termine del breve trekking, facciamo ritorno al nostro fuoristrada per proseguire fino al piccolo villaggio di Erdenekhairkhan, luogo in cui trascorreremo la notte nelle povere stanze del locale circolo ricreativo.

Giovedì 3 ottobre - Partiamo un poco prima del solito a causa della lunghezza della tappa odierna. Intorno a noi una landa desertica sassosa con radi ciuffi di erba gialla; un paesaggio monotono fra bassi rilievi ondulati e colline rocciose. Dopo oltre quattro ore di viaggio ci fermiamo a Urgamal, piccolo villaggio da cui ripartiamo dopo la pausa per il pranzo che Bazaraa consuma in un guanz, tipica locanda presente in ogni villaggio. Altre tre ore di viaggio e giungiamo sulle rive del lago Khyargas Nuur, enorme bacino dalle acque salate, che compare all'improvviso nel nulla del deserto stepposo. Ci sistemiamo nell'unica struttura alquanto spartana della zona, un ex albergo sovietico divenuto, Hotel Terme. Mentre Bazaraa, con una saldatrice avuta in prestito dall'albergo e l'aiuto del suo amico che con il suo fuoristrada ha viaggiato al nostro seguito, cerca di riparare il coperchio del differenziale anteriore in cui si è prodotta una crepa, saliamo sul crinale della montagna retrostante fino ad una sorgente naturale di acque sulfuree, ritenuta dai locali una fonte sacra.

Venerdì 4 ottobre - Percorriamo per un breve tratto la nuova strada asfaltata, costruita da imprese cinesi, che in futuro dovrebbe collegare Ulangom con Ulan Bataar e che transita di fronte all'albergo. Ben presto imbocchiamo nuovamente una pista, questa volta in direzione di Olgji, attorno a noi una steppa sassosa cosparsa di radi cespugli. Saliamo di quota, dai 1.000 metri del lago Khyargas Nuur raggiungiamo un passo posto a 2.100 metri; la discesa in un susseguirsi di colline e praterie ci conduce alle rive del lago Achit Nuur, luogo di riproduzione per diverse specie d'uccelli. Breve sosta sulle sponde del lago prima di affrontare una nuova salita in una gola tra ripide pareti rocciose, mentre in lontananza cominciano ad apparire le vette innevate dei monti Altai. L'ultima discesa, costeggiando le rive alberate di un fiume, ci porta alla città di Olgji, capoluogo della regione meno mongola della Mongolia, dove ci fermeremo qualche giorno per assistere alla Festa delle Aquile. Siamo vicini al confine con Russia e Cina ed il Kazakistan non è molto più lontano; è proprio da questa nazione che proviene la maggioranza della popolazione che ha costituito in territorio mongolo, una vera e propria enclave islamica. Dopo tanti pasti serali cucinati all'interno delle gher, stasera ceniamo in un conosciuto ed apprezzato ristorante turco mentre per la notte saremo ospiti di una famiglia kazaka. Nel cortile di casa hanno montato una gher, che come tutte le gher kazake è differente da quelle mongole: molto più ampia e con il tetto più alto e spiovente, ha il pavimento e le pareti rivestite con tappeti colorati a disegni geometrici e floreali. Il tentativo di saldatura effettuato ieri, non ha dato gli esiti sperati e Bazaraa approfittando della possibilità di reperire in città, ricambi per la sua Uaz, aiutato da Mejet il titolare dell'agenzia con cui viaggiamo, durante la serata alla luce di una torcia, effettua la sostituzione del coperchio del differenziale e del semiasse anteriore destro.

Sabato 5 ottobre - Di buon mattimo lasciamo la gher per recarci a Sayat Tube, località nei dintorni di Olgji, dove ogni anno si tiene l'Eagles Festival. Uscendo dalla città, troviamo il posto di controllo che regolamenta l'accesso di mezzi e persone all'area della manifestazione; acquistati i biglietti e percorsi pochi chilometri ci ritroviamo con Mejet, in viaggio con due viaggiatori spagnoli, sulla vasta spianata adibita a parcheggio. Vediamo arrivare i primi cavalieri con appollaiate sul braccio destro le aquile con cui gareggeranno, che vengono esibite ed orgogliosamente mostrate a turisti ed appassionati locali. Alle 10, con l'iscrizione dei partecipanti al tavolo della giuria, ha inizio il concorso, preceduto dalla parata, un carosello a cavallo in cui tutti gli iscritti sfilano, passando al trotto, con la propria aquila sul braccio, di fronte alla giuria ed al numeroso pubblico presente, composto da molti locali ed altrettanti turisti. Dopo la sosta per il pranzo, iniziano le competizioni: a sfidarsi cinquantasette iscritti, compresi tra i diciassette anni del concorrente più giovane e gli ottanta anni di quello più anziano. La prima prova consiste nella cattura, da parte del rapace, di un pezzo di carne che il cavaliere tiene in mano. Un assistente si reca in una postazione prefissata a circa metà parete dello scosceso costone roccioso che sovrasta la steppa e ai richiami del cavaliere, l'aquila, dopo che le è stato tolto il tomaga, il cappuccio in cuoio che le impedisce la vista, focalizzata la preda, deve fiondarsi sul cavaliere ed arrestarsi sul suo braccio afferrando il pezzo di selvaggina, utilizzata come preda che questi ha in mano. In gara, rapaci di età e peso differenti: più piccole, le aquile più giovani; grosse e maestose le più anziane. Sono esclusivamente le femmine ad essere utilizzate per questo tipo di caccia essendo dotate di un maggiore istinto predatorio ed avendo dimensioni maggiori rispetto ai maschi. Quasi tutte si lanciano subito sulla preda; qualcuna però approfitta del momento di libertà per volteggiare sulle teste di pubblico e concorrenti e librarsi libera nell'aria. Uno spettacolo, nello spettacolo. Nel contempo un nutrito gruppo di arcieri si sfida nella gara di tiro con l'arco; in questa competizione l'abilità consiste nel colpire bocce in legno posizionate a trenta - quaranta metri di distanza con frecce che in luogo dell'estremità appuntita hanno un tampone di legno. E' poi la volta di varie sfide tra i cavalieri, una prova di agilità e maestria nel cavalcare e di notevole forza fisica è il tenge ilu. Lanciato il cavallo al galoppo i cavalieri devono riuscire senza arrestarsi, a raccogliere con le mani una palla di tessuto posizionata a terra. Ci fermiamo fino alle 17; la giornata che era iniziata con un cielo carico di nuvole nere e fiocchi di neve gelata spinti da un vento gelido si è conclusa con un pallido sole. Ci rechiamo in centro città per la cena al consueto ristorante turco e quindi al teatro comunale per assistere allo spettacolo di musiche e danze kazake, espressione artistica a contorno dell'Eagles festival.

Domenica 6 ottobre - Lanciatosi nell'acquisto di ricambi per il suo Uaz, Bazaraa ha acquistato anche il corpo di un carburatore usato. All'orario convenuto e con il carburatore sostituito il fuoristrada non vuole saperne di restare in moto. Sconsolato Bazaraa, si rimette al lavoro per rimontare il pezzo sostituito che peraltro non aveva problemi. Ed infatti a lavoro ultimato tutto ritorna a funzionare; abbiamo solo perso un'ora! Raggiungiamo nuovamente la collina di Sayat Tube dove si tiene il festival, c'è già parecchia gente, turisti e locali. La manifestazione non è ancora iniziata, inganniamo l'attesa passeggiando fra il pubblico in cui spiccano alcuni folkloristici personaggi. La competizione odierna per i cavalieri e le loro aquile consiste in due prove identiche per tipologia e con un'unica variante: il punto sulla montagna in cui esse verranno liberate. Per la prima prova dello shakhyru, gli assistenti liberanno i rapaci dallo sperone roccioso già utilizzato ieri, mentre per la seconda prova il luogo di lancio sarà la sommità della montagna. Questa volta la preda è la pelliccia di un animale selvatico legata ad una corda che il cavaliere trascina con il suo cavallo sul campo di gara; l'aquila dovrà fiondarsi sulla pelle dell'animale ed arpionarla con gli artigli, come premio avrà dal suo addestratore un pezzo di carne. Nel pomeriggio ha inizio anche un torneo di buzkashi, a cui partecipano diverse squadre di cavalieri; è un gioco duro e maschio in cui i cavalieri, in una lotta senza esclusioni di colpi, con frustate indirizzate tanto ai cavalli quanto ai cavalieri, devono impossessarsi del vello di una capra riempito di paglia, che devono depositare in grossi cesti in muratura, utilizzati come meta. Una bella giornata di sole, graziata dal vento che termina con la consegna di attestati e medaglie ai vincitori.

Lunedì 7 ottobre - Ci alziamo un poco più tardi del solito dovendo aspettare le 10 orario di apertura dei bagni pubblici, situati in centro città, dove potremo finalmente farci una doccia bollente. Breve trasferimento quello odierno su un pista sassosa che a tratti corre nel letto di un fiume in secca e che porta nella prateria, all'abitazione di un cacciatore kazako, personaggio che abbiamo conosciuto ieri all'Eagles festival. Ci accoglie la moglie, che già si stava intrattenendo con due signore canadesi che saranno loro ospiti, per un paio di giorni. La casa, una bassa costruzione in sassi, è dotata di un'unica grande stanza utilizzata sia durante il giorno, per i pasti, che per la notte, quando a terra, vengono posizionati i materassi accatastati contro una parete. Attendiamo l'arrivo del padrone di casa, che con un pizzico di orgoglio, ci mostra l'aquila che ha addestrato e che utilizza per cacciare piccoli animali da pelliccia. Il rapace, rimasto fino a quel momento legato al suo trespolo, posto sull'uscio di casa, è un esemplare stupendo; lo possiamo accarezzare e portare sul braccio, a dispetto del notevole peso. Nel tardo pomeriggio facciamo rientro ad Olgji; la città si è svuotata dei turisti venuti per assistere al festival e riusciamo ad ottenere le camere in quello che è considerato il migliore hotel della città.

Martedì 8 ottobre - Nella notte ha piovuto ed i rilievi circostanti sono imbiancati di neve. Usciamo per le strade pressochè deserte e ci dirigiamo al mercato kazako; non c'è molta gente, qualche raro passante frettoloso ed i venditori, in maggioranza donne, che hanno allestito lungo la strada le loro bancarelle, con contenitori in plastica riempiti di latte o airag. Ricomincia a piovere, torniamo in albergo e caricati i bagagli, ripartiamo. Lasciamo la città, utilizzando la nuova strada asfaltata, percorribile per circa settanta chilometri ed in via di ultimazione da parte delle onnipresenti imprese cinesi. Fra scrosci di pioggia e nuvole basse che nascondono alla vista le montagne circostanti, costeggiamo il lago Tolbo. Con l'inizio della pista sterrata cominciamo a salire di quota, ben presto alle gocce di pioggia si sostituiscono fiocchi di neve gelata che aumentano di intensità e che si tramutano in una tempesta di neve, quando giungiamo al valico situato ad un'altitudine di 2.600 metri. Il vento soffia fortissimo e la neve gelata sferza la carrozzeria della Uaz con violente folate. Affrontiamo la discesa resa viscida da neve e fango; superati un paio di difficili guadi grazie alla notevole altezza da terra del fuoristrada siamo nuovamente sull'altipiano e quando arriviamo a Khovd, a poco più di 1.300 metri d'altitudine, ritroviamo nuovamente il sole ed il solito vento siberiano. Trovato un albergo, usciamo a piedi; ci rechiamo al mercato che, come quasi ovunque, è ospitato nei container.

Mercoledì 9 ottobre - Alle 9 ci ritroviamo come di consueto con Bazaraa; nella notte, la temperatura è scesa di parecchi gradi sottozero e le vetture parcheggiate davanti all'albergo sono ricoperte da una spessa patina ghiacciata. La strada per Darvi è invece una piacevole sorpresa essendo asfaltata nella sua totalità; 205 chilometri interrotti per poche centinaia di metri in corrispondenza di tre ponti non ancora transitabili. Attraversiamo una vasta landa desertica di ghiaia e sassi, un vasto altipiano con in lontananza i monti Tsast Uul. Dopo una breve sosta nel minuscolo villaggio di Darvi per consentire a Bazaraa di pranzare presso una delle locali trattorie, decidiamo di proseguire fino ad Altai; la larga e pressochè rettilinea strada sterrata ha il fondo in tole ondulèe e frequenti sono le deviazioni che Bazaraa compie per aggirare i tratti più rovinati. Saliamo leggermente di quota, con il comparire della vegetazione ricompaiono anche gli animali al pascolo. Superato l'ultimo valico e costeggiato il piccolo aeroporto, all'imbrunire, dopo quattrocento chilometri giungiamo ad Altai.

Giovedì 10 ottobre - Ci rechiamo al vicino mercato ospitato nei container, ma a causa dell'ora mattutina (l'apertura ufficiale è alle 10) è ancora deserto. Attraversata l'area più esterna dove si trovano i gommisti ed i venditori di ricambi, nuovi ed usati, per autovetture e motocicli ci spostiamo a ridosso del mercato interno dove sono posti in vendita carbone e sterco secco, utilizzato nelle stufe di gher e abitazioni. E' anche l'area di parcheggio delle moto-taxi e dei fuoristrada dei nomadi che vendono la carne macellata delle loro pecore; animali interi esposti sul cofano delle loro Uaz. Ci portiamo all'interno, fra container che ospitano oltre a minuscoli guanz, negozi che vendono ferramenta di ogni tipo ed i pezzi, dal telaio in legno, al feltro, alla copertura, agli arredi che servono per assemblare ed arredare una gher. In tarda mattinata lasciamo Altai; fuori città poco oltre il bivio per Uliastai, ci fermiamo ad un ovoo, monumento sciamanico che si erge solitario su una collinetta in mezzo alla sassosa radura desertica, attraversata dalla striscia asfaltata della nuova strada diretta ad Ulan Bataar. Siamo nella regione dell'Altai Gobi, una zona dagli spazi immensi e deserti in cui si nota la totale assenza di persone e soprattutto di animali. Sperduto nel nulla ci appare il villaggio di Undzen Us, un piccolo agglomerato di gher con qualche costruzione in muratura che funge da punto di ristoro e di sosta per uomini e mezzi, siano essi autobus o autocarri lungo la pista che si inoltra nel deserto del Gobi. Proseguiamo fino al lago Buun Tsagaan Nuur che raggiungiamo attraversando direttamente la radura; costeggiando le rive sassose ritorniamo sulla pista per raggiungere il villaggio, dove ci fermiamo per la notte ospitati in due stanze adibite a foresteria, al piano terreno dell'edificio che ospita gli uffici comunali.

Venerdì 11 ottobre - Alle 9,30 lasciamo il villaggio che comincia lentamente ad animarsi; bambini che si recano a scuola, persone che sulla piazza antistante l'edificio in cui abbiamo dormito, aspettano l'apertura degli uffici comunali. Qui la tranquilla routine lavorativa comincia un po' più tardi. Imbocchiamo la pista in buone condizioni, attraverso un deserto ghiaioso fino al momento in cui le tracce spariscono, portate via dal nuovo corso di un fiume che durante le piogge della stagione estiva ha modificato pesantemente la morfologia del terreno. Bazaraa utilizzando il suo binocolo, mi indica il punto che dobbiamo raggiungere, uno stretto valico sulla montagna opposta. Risaliamo il crinale della montagna, come fosse un sassoso piano inclinato seguendo le tracce lasciate da un fuoristrada che ci ha preceduto; ci fermiamo presso una gher di pastori per chiedere informazioni e per avere la conferma che solo seguendo il letto del torrente si arriverà nei pressi del passo dove si ritroverà la pista. Più che una pista sono passaggi fuoristradistici aperti dai cercatori d'oro; passaggi ripidi, tortuosi e difficili superati solo con l'ausilio della trazione integrale e delle marce ridotte. Superato il passo a 2.000 metri di quota iniziamo la discesa verso l'altopiano, scendiamo al lago Maimut tra gher isolate e cammelli al pascolo. Breve sosta a Bayangovi per qualche acquisto all'emporio locale e dopo altri quaranta chilometri attraverso la prateria tra alti ciuffi di erba ormai gialla, giungiamo a Bayanlig. Bazaraa si mette alla ricerca di una sistemazione per la notte; le tre locande del villaggio sono tutte al completo essendo occupate dagli operai di un cantiere per la costruzione di un grosso edificio destinato ad uffici amministrativi locali e a scuole. Non sappiamo come abbia fatto, ma quando eravamo ormai rassegnati, Bazaraa riesce a farci ospitare in una stanza con accesso esterno, solitamente utilizzata dal personale medico, nella locale clinica pediatrica. Recandoci alla toilette posizionata secondo le usanze mongole, sempre nel cortile a debita distanza da gher o abitazioni, buttando uno sguardo all'interno delle finestre illuminate attigue alla nostra stanza, notiamo infatti la presenza di due giovani puerpere con i loro neonati.

Sabato 12 ottobre - Lasciamo su una pista ghiaiosa Bayanlig e l'altipiano su cui è stata costruita. Ci inoltriamo in una zona di basse montagne; mentre saliamo verso il passo, Bazaraa percepisce un rumore sinistro provenire da una ruota anteriore. Si è grippato il cuscinetto del mozzo ruota; mentre il nostro autista procede con la riparazione, inganniamo l'attesa, salendo su un picco roccioso che domina l'intera vallata e da cui riusciamo a vedere in lontananza il Tsambagarav Uul, che con i suoi 4.200 metri è una delle cime più imponenti e maestose della Mongolia. Attraverso pascoli estivi ormai abbandonati ci dirigiamo alla Grotta Bianca di Bayanlig, una grossa caverna dalle pareti ricoperte di cristalli di quarzo, abitata da uomini primitivi 750.000 anni fa. La pista, come già successo nei giorni scorsi, è stata portata via da migliaia di rivoli d'acqua e torrenti che scendono dalle montagne circostanti; con un percorso fuoristradistico ci abbassiamo di quota fino a trovarci in pieno deserto del Gobi, una infinita spianata di ghiaia senza vegetazione, interrotta saltuariamente da zone sabbiose su cui crescono bassi arbusti arborei e dove abbiamo la fortuna di avvistare alcuni gruppi di timorose gazzelle della Mongolia. Arriviamo in vista di Khongoryn Els, un ondulato e spettacolare cordone di dune che si estende per oltre centocinquanta chilometri; ci fermiamo in una depressione con un piccolo lago sulle cui rive pascolano cammelli e cavalli e nelle cui vicinanze ci sono alcune gher in cui trascorreremo un paio di notti.

Domenica 13 ottobre - Intera giornata dedicata alle dune quella odierna. A piedi lasciamo il campo di gher ed attraversato lo stretto corso d'acqua che forma un piccolo lago, fonte di abbeveramento per gli animali, cominciamo la dura salita nella sabbia. L'avanzata è faticosa, con la sabbia che cede sotto il nostro peso; in circa un'ora siamo sulla cresta dopo aver risalito i 200 metri di dislivello che costituiscono l'altezza di queste imponenti dune, chiamate le "dune che cantano" per il suono che viene generato quando la sabbia sollevata dal vento o dai passi delle persone, ricade a valle. La vista che si gode dall'alto è spettacolare, da un lato la sassosa piana desertica delimitata all'orizzonte da una catena di monti innevati, dall'altro una vasta distesa di dune basse ed ondulate che termina a ridosso di un costone roccioso. Camminiamo per un lungo tratto in cresta lungo la dorsale delle dune che si susseguono l'una all'altra, prima di lanciarci in una divertente corsa nella sabbia lungo la verticale sulla linea di massima pendenza. Rientrando alla gher, grazie a Bazaraa, abbiamo l'opportunità di incontrare un paio di ninja, i cercatori d'oro, personaggi restii dal farsi vedere e che vivono ai margini della legalità. Ci mostrano, quasi al riparo della loro vecchia e scassatissima Uaz, poche pagliuzze, infinitesimamente piccole, che per noi è difficile identificare come oro. A vedersi sembrano due disperati, due personaggi usciti da un vecchio film western.

Lunedì 14 ottobre - Dopo una notte in cui il vento forte e gelido ha soffiato quasi ininterrottamente, lasciamo Khongoryn Els, per dirigerci, attraverso un tratto di deserto ghiaioso, verso le montagne. Come saliamo leggermente di quota, ci appaiono i primi rilievi innevati ma è solo dopo aver scollinato ed essere giunti nuovamente sull'altipiano, che ci appare la steppa come non l'avevamo ancora vista, irriconoscibile sotto la neve caduta nella notte e che in alcuni punti presenta alti accumuli dovuti all'azione del vento. Nel deserto uniforme, ammantato di bianco diventa difficile riconoscere le tracce della pista, scomparse sotto la coltre nevosa; anche per un autista con l'esperienza di Bazaraa, l'unica certezza è seguire le tracce lasciate da un mezzo pesante transitato prima di noi. Attraversiamo una zona completamente deserta, solo avvicinandoci a Bulgan, grazie anche all'azione del sole che comincia a sciogliere la neve, vediamo qualche gregge di pecore e piccole mandrie di cavalli alla ricerca di radi ciuffi d'erba. Dopo una sosta per consentire a Bazaraa di recarsi a pranzo in uno dei guanz del villaggio, partiamo alla volta della vicina Bayanzag, località divenuta famosa in quanto nel 1922 il ricercatore americano Andrews, vi scoprì il più importante giacimento di scheletri e di uova di dinosauro. Arriviamo sulla parte superiore della falesia; lasciata l'auto, ci spostiamo a piedi fra pareti di arenaria rossa modellata dagli agenti atmosferici per poi scendere nella parte inferiore dell'anfiteatro ed attendere il tramonto che da alle rocce una colorazione ancora più intensa.

Martedì 15 ottobre - Mattina tersissima senza una nube in cielo ma molto fredda e come sempre sferzata dal vento siberiano. La falaise stamane ci appare in una veste diversa; le rocce hanno assunto nuove tonalità di colore, nella fredda luce del mattino. Ci dirigiamo verso i monti, percorrendo la pista che attraversa il deserto ghiaioso. Salendo di quota, ritroviamo nuovamente la neve ma riusciamo senza alcun problema a percorrere gli ottantasette chilometri che ci portano ai 2.035 metri di un piccolo campo di gher, posto nelle immediate vicinanze del parco nazionale di Yolyn Am, in cui vivono alcuni pastori, che nella notte sono stati visitati da un lupo che ha ucciso un paio di pecore. E' un'area montagnosa, habitat ideale per molti animali selvatici (stambecchi, marmotte, linci, lupi) e luogo di nidificazione per aquile ed altri rapaci. A piedi, ci addentriamo nel profondo e stretto canyon di origine vulcanica, incassato tra alte pareti rocciose, in cui scorre un torrente, ghiacciato per buona parte dell'anno; a causa di neve e ghiaccio, il passaggio sulle rocce poste a pelo d'acqua, si rivela particolarmente ostico. Lungo il sentiero, numerosi pika, graziosi roditori simili a piccoli coniglietti entrano ed escono velocissimi dalle loro tane mentre sui dirupi che circondano la gola, riusciamo a vedere alcuni stambecchi. Ci fermiamo al museo, posto all'ingresso del parco, che contiene un'esposizione di animali imbalsamati: volpi, lupi, linci, leopardi delle nevi, cammelli, oltre ad ossa e uova di dinosauro. Uscendo, notiamo un pannello riportante le distanze chilometriche tra le città vicine ed il punto in cui ci troviamo; scopriamo di essere ad una quarantina di chilometri da Dalanzadgad. Invece che fermarci in una gher di montagna, al freddo, tra neve e vento, chiediamo a Bazaraa di portarci in città, dove ci sistemiamo in hotel.

Mercoledì 16 ottobre - Lasciamo Dalanzadgad, capoluogo dell'Omnogov, il Gobi meridionale, nucleo urbano moderno nonchè ricco centro minerario per risalire verso nord, attraverso la steppa tra cammelli al pascolo, radi ciuffi d'erba e sassi. Siamo ormai alle fasi conclusive del nostro viaggio e le strade che percorriamo ci avvicinano sempre di più ad Ulan Bataar. Dopo tre ore di viaggio in cui alterniamo tratti di pista a polverosi tratturi che attraversano i cantieri per la costruzione della nuova strada, raggiungiamo il villaggio di Ulan Suvarga, da cui si diparte la pista secondaria che ci permette di raggiungere, dopo alcuni chilometri, alcune gher che saranno il luogo dove sosteremo per la notte, a poca distanza dalle bianche rocce calcaree di Tsagaan Suvraga, caratteristico territorio solcato da profonde erosioni, con pinnacoli e gole, molto simile alla Cappadocia, che raggiungiamo per assistere al tramonto.

Giovedì 17 ottobre - Ritorniamo nuovamente alle rocce di Tsagaan Suvraga, per apprezzarne le nuove tonalità di colore ora che sono irradiate dalla luce del mattino. Lasciata l'auto, ci incamminiamo in una gola per scendere nella parte inferiore della falaise caratterizzata da tante piccole dune dai colori più disparati; una tavolozza dalle mille tonalità in cui spiccano le sfumature del terreno: dal cenere al giallo, dall'ocra al rosso, al marrone. Riprendiamo il nostro viaggio di avvicinamento alla capitale, attraverso la steppa desertica in cui spicca l'assenza di animali al pascolo e di centri abitati; in ore di pista attraversiamo solo due piccoli villaggi, Kod e Luus. Ritroviamo anche la strada asfaltata, appena ultimata, che percorriamo per 140 chilometri fino alla cittadina di Mandal Ovo. Un guasto ci obbliga ad una sosta non prevista; questa volta è un cuscinetto del differenziale posteriore a creare problemi. Bazaraa interviene dapprima staccando il solo albero di trasmissione e poi, visto che il rumore non cessa, sfilando anche il semiasse posteriore destro. Ora viaggeremo con la trazione sulle sole ruote anteriori; la riparazione verrà effettuata al rientro ad Ulan Bataar, a viaggio ultimato. Lasciamo la strada asfaltata ed attraverso pascoli ondulati, basse colline e miniere di carbone raggiungiamo Baga Gazryn Chuluu. Rocce di granito che si sfaldano a gradoni sono il panorama che si para ai nostri occhi.

Venerdì 18 ottobre - Usciamo dalla gher accolti da un vento polare, da una tormenta di neve e da una temperatura abbondantemente sottozero. Vediamo per la prima volta Bazaraa indossare un giubbotto di pile a dimostrazione che il freddo dell'inverno mongolo comincia a farsi sentire. Fatti pochi chilometri ci fermiamo nel punto in cui nascosto fra rocce stratiformi di granito e bassi arbusti, sorgeva un vecchio monastero, ridotto ad un cumulo di sassi e macerie, ma ancora oggi meta di pellegrinaggio. Ci rimettiamo in viaggio, un'ottantina di chilometri di pista su colline ondulate ricoperte di erba ingiallita ed incrociamo la nuova strada asfaltata, appena ultimata. La percorriamo per oltre 130 chilometri fino a quando ritroviamo la vecchia strada per Ulan Bataar, per gli ultimi venti chilometri di buche e rappezzi. Nel pomeriggio giungiamo in città; dopo giorni di viaggio e tanti chilometri su piste e strade deserte, eccoci proiettati nel traffico caotico della capitale. Ci congediamo da Bazaraa, ottimo autista e validissima guida, in Bayanzurkh District, di fronte all'edificio che ospita l'appartamento della Mejet tours, dove ritroviamo Bilegt. Depositati i bagagli, avendo ancora buona parte del pomeriggio a disposizione, a piedi raggiungiamo il centro città per recarci allo State Departement Store ed effettuare alcuni acquisti.

Sabato 19 ottobre - Con una temperatura abbondantemente sottozero, ci incamminiamo verso il centro della città, per raggiungere il Tempio di Choijin Lama, complesso costituito da cinque templi, quasi soffocato dagli alti palazzi ultramoderni che lo sovrastano e che non avevamo potuto visitare il giorno del nostro arrivo. A dispetto del nome, non è più un luogo di culto dal 1942, anno in cui venne trasformato in museo. I vari padiglioni, molto diversi da quelli visti in altri templi, racchiudono una vasta esposizione di oggetti preziosi: antichi libri di preghiera, maschere Tsam, splendidi thanka e tesori d'arte religiosa. Ci spostiamo quindi, camminando lungo Peace Avenue, trafficata arteria con negozi e grandi magazzini, al Monastero di Gandan, vasto complesso monastico composto da più edifici, affollato di monaci e pellegrini; superato il portone a forma di pagoda che da accesso alla cittadella ci ritroviamo sul vasto piazzale su cui sorge il Migjed Janraisig, il Tempio Principale, simbolo dell'indipendenza mongola, al cui interno si trova una statua alta ventisei metri, rivestita d'oro, di Janraisig, il "Dio che guarda ovunque". Passeggiamo per i cortili, insieme ai molti fedeli che si fermano in preghiera appoggiandosi ad alcuni pali in legno consunti per l'uso, su cui si affacciano diversi altri edifici, tra cui il Tempio di Vajradhara e la Libreria che al suo interno conserva un milione di sutra, antichi testi sacri scritti in mongolo, in tibetano ed in sanscrito. Terminata la visita, riprendiamo Peace Avenue per dirigerci al Museo nazionale della Storia Mongola. Molto interessante ed estremamente curato è disposto su tre piani, ognuno con tematiche differenti. Iniziamo la visita con la sezione dedicata ai reperti archeologici risalenti all'età della pietra ed ai petroglifi e alle pietre funerarie di epoca unna, per passare al secondo piano dedicato agli abiti tradizionali indossati nelle diverse stagioni, agli abiti da cerimonia, ai copricapo, agli accessori ed ai gioielli dei venti gruppi etnici presenti in Mongolia. Nelle bacheche dell'ultima sezione al terzo piano sono esposte armature e documenti risalenti al XII° secolo oltre ad attrezzi da lavoro, armi, strumenti musicali ed oggetti di uso comune utilizzati ancora oggi, dopo secoli, dal popolo nomade. Transitando per piazza Sukhbaatar, lanciamo un ultimo sguardo ai monumenti con le statue di Gengis Khan e Marco Polo e facciamo rientro all'appartamento dove trascorriamo la serata con Bilegt e Mejet, con cui abbiamo modo di approfondire temi ed aspetti della vita dei nomadi soprattutto durante il durissimo periodo invernale.

Domenica 20 ottobre - Alle 6,30, Mejet con la sua vettura personale è sotto casa per portarci al Chinggis Khaan Airport. E' buio, il traffico quasi inesistente, in trenta minuti siamo all'aeroporto. Molto celermente sbrighiamo pratiche e formalità per l'imbarco; non ci resta che attendere al gate la chiamata del volo della Miat, la compagnia di bandiera mongola, diretto a Mosca. A mezzogiorno atterriamo all'aeroporto Sherematyevo; abbiamo ancora un pomeriggio da dedicare alla capitale moscovita. Ci dirigiamo immediatamente al terminal di partenza del treno Aeroexpress e successivamente con la metropolitana ci portiamo in centro. Utilizziamo per l'uscita, la stazione Teatralnaya situata nella piazza antistante il teatro Bolshoi; passeggiando per le vie del quartiere di Kitay Gorod, su cui si affacciano bei palazzi d'epoca, raggiungiamo il piccolo monastero della Vergine della Natività. Veniamo avvicinati da una monaca che sentendoci parlare in italiano, vuole scambiare qualche parola con noi. Esprimendosi correttamente nella nostra lingua, ci racconta di aveva vissuto per un certo periodo in un monastero romano; pur non essendo orario di visita ci accompagna e ci illustra le opere, affreschi ed icone, presenti in chiesa. Proseguiamo il nostro giro per le vie di Mosca fino a piazza Lubjianka su cui sorge il palazzo omonimo, sede del Kgb, dove prendiamo la metropolitana per raggiungere la stazione di Bielorusskaya e da qui il treno Aeroexpress che ci riporta in aeroporto; in serata, ci attende il volo Alitalia per Malpensa.
 
 
 
 
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